Accadde tempo fa.
Presso il mio studio giunge un giovane di 20 anni accompagnato dalla mamma.
Provo a parlare con il giovane, ma lui oppone un silenzio che mi impedisce
la benché minima relazione. Vista la situazione, faccio accomodare il ragazzo
nella sala d'attesa e decido di confrontarmi prima con la madre.
È una storia di ricoveri in diversi reparti ospedalieri per il trattamento della psicosi a Padova, Treviso, Vicenza... con altrettanti diversificati trattamenti farmacologici, che non riescono a "portare di qua" la persona, spesso impegnata in soliloqui e comportamenti bizzarri che la fanno stare in un mondo tutto suo.
Ma la vera sorpresa ci giunge all'uscita dal colloquio.
Vediamo la mia collaboratrice e il giovane che stanno disegnando vicini l'una all'altro.
La mamma rimane stupita dal fatto che il figlio si sia fatto avvicinare e
coinvolgere da qualcuno. Riferisce che nessuno tra psicologi, psichiatri
ed educatori ci era riuscito prima.
La mia collaboratrice, senza alcuna intenzione terapeutica ma solo spinta
dal desiderio di intrattenere il ragazzo, è riuscita ad aprire "un varco"
relazionale là dove tanti professionisti, me compreso, avevano fallito.
Questo fatto mi ha suscitato tante domande, così sono andato a leggere le
cartelle cliniche che la mamma mi aveva portato. Alla conclusione avevo
ancora più domande che risposte.
Perché si parla solo del disturbo e non c'è una parola sul rapporto madre-figlio?
Perché non risulta nulla sulle relazioni familiari, ma solo dettagli che
descrivono gli alti e bassi dei sintomi e una sfilza di psicofarmaci somministrati?
Perché la mia collaboratrice con un caffè e quattro schizzi è riuscita a "conquistare" il ragazzo?
Cosa ha fatto di diverso dai professionisti della psichiatria-psicologia e dei centri specializzati?
Questo episodio può insegnarmi qualcosa per il trattamento di persone che
"stanno fuori come un balcone" o forse vivono dentro una specie di prigione?
Certamente sì.
Se faccio controllare le gomme dell'auto, bisogna dare un'occhiata a tutte e
quattro, non ad una soltanto. In ugual modo, per trattare il disagio psicotico
è necessario intervenire su più componenti del nucleo famigliare e non solamente
con l'individuo che manifesta il problema.
Se mettiamo assieme un gruppo di zoppi, non credo si migliorino le prestazioni podistiche. Parimenti, raggruppando in reparti o comunità persone con disagio psicotico, si corre il rischio di ampliarlo e cronicizzarlo. Se trattiamo una persona come "matta" finché ha un barlume di lucidità non offuscato dalla chimica, tenderà a difendere con le unghie e con i denti la sua "normalità" seppur sofferente, opponendosi a qualsiasi forma di trattamento atto nelle intenzioni a procurare benessere.
Queste riflessioni mi hanno condotto a realizzare un approccio alternativo rispetto
a quanto offerto dal territorio per il trattamento del disagio psichiatrico e in
particolare della psicosi.
A Padova, Treviso, Vicenza, nei miei studi, propongo dei "laboratori espressivo-relazionali"
costruiti su misura per la persona sofferente.
Partendo dagli interessi della persona si fanno delle attività che favoriscono
un senso di gratificazione e piacere in modo da suscitare fiducia verso chi la sta aiutando.
Questo è il primo passo verso un rinnovato e più sano "ritorno alla realtà".
Mi piace chiamarla "tandem terapia" poiché la guida pedala assieme al passeggero
ma all'occorrenza frena, cambia rapporti e conduce verso direzioni opportune.
Nel caso del ragazzo sopra citato abbiamo notato che i suoi pensieri e interessi
sono una sorta di film romantico, in cui lui vive immerso e appassionato da diverse
forme d'arte, come la danza, la recitazione, l'arte figurativa ecc. Abbiamo
concretizzato questi aspetti per rendere reale e vissuto un mondo altrimenti
solo virtuale e delirante per il giovane.
L'intervento in tandem dell'operatore con la persona è individuale e cadenzato
da una frequenza concordata secondo le esigenze terapeutiche.
Lo psicoterapeuta invece interviene attraverso colloqui con uno o più familiari e
supervisiona l'andamento dell'intervento complessivo, collaborando con lo psichiatra
di riferimento.
L'idea di fondo è quella di fare come il sarto e "confezionare" una terapia su
misura, rimanendo per quanto possibile a casa propria e cercando di accompagnare
l'individuo verso relazioni sociali costruttive.
Le attività possono avvenire in diversi posti e prevedono uscite in luoghi fruiti
da tutti come negozi, siti artistici, attività culturali e ricreative. Altresì ci
possono essere momenti dove le azioni terapeutiche avvengono in spazi predefiniti
come casa o apposite aule.
Insomma si prende a prestito l'idea del personal trainer per applicarla nel disagio psichico.
Va specificato che il disagio sul versante psicotico non è facile da affrontare e richiede spesso tempo, pazienza e disponibilità al cambiamento. Tuttavia, a mio modo di vedere, urge la necessità di pensare e creare nuovi approcci terapeutici, in quanto quelli esistenti spesso "tolgono il disturbo" rendendo "zombi" le persone.
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